Varie Mako Reactor n° 5 (part I)

Bahamut Zero

Dreamcaster
Il nuovo arrivato ci sapeva davvero fare: con poche, abili mosse aveva da solo messo fuori gioco tre guardie senza quasi smuovere un granello di polvere, e comunque senza che nessuna riuscisse a dare l’allarme. Le sue forti braccia ghermivano il collo dei malcapitati attendenti della ShinRa all’altezza della giugulare non appena queste davano le spalle, e con un unico, rapido movimento, impartivano loro il fatale crack.
L’uomo aveva fatto cenno ai suoi tre compari di aspettarlo all’entrata del modernissimo complesso industriale mentre lui sbrigava quella sporca mansione. << Lasciatemi lavorare >> aveva detto, a scanso di seccature, a Barret prima di entrare in azione.

Da solo, aveva silenziosamente girato l’angolo e, col favore delle tenebre, si era avvicinato al cancello principale scivolando segretamente nell’ampio cono di luce elettrica che lo circondava. Sempre non visto, aveva posto fine una volta per sempre alle preoccupazioni del soldato Hagen, che rimuginava su come far quadrare i conti mettendo anche qualcosa da parte per il suo progetto di matrimonio dell’estate successiva. Ultimamente infatti sembrava divertente, ai piani alti dell’esercito, trattenere ai soldati semplici lo stipendio o ridurlo all’osso alla minima disattenzione, al minimo sopracciglio alzato all’ennesimo ordine strampalato del suscettibile ufficiale di turno. Hagen ricordava benissimo quella volta che, fresco di accademia, aveva ribattuto a quel rintronato del colonnello Steiner che, a quanto risultava da sicure ricerche ornitologiche, era impossibile preparare una omelette di uova di dodo, dal momento che si trattava di una specie estinta. Il vecchio militare, che sosteneva ancora la sua crociata contro i moderni e veloci motocicli a reazione per un sano ritorno agli inseguimenti a dorso di chocobo, aveva scatenato un putiferio per non aver avuto la sua frittata: onorò con la sua imponente firma, Adalberto Chevalier Steiner II, approntata con una lunga penna d’oca, decine di vecchie pergamene con cui richiedeva ufficialmente al Comando Generale della Milizia per la Sicurezza di Midgar e al Gran Consiglio d’Amministrazione e al Presidente della ShinRa Corporation, suo diletto e carissimo amico personale, l’arresto per direttissima e la condanna a morte per impiccagione della recluta Hagen del reggimento Plutò della succitata Milizia per la Sicurezza di Midgar per grave insubordinazione agli ordini di un diretto superiore, vilipendio alla divisa che portava e vituperio all’intelligenza di un uomo d’esperienza e somma fedeltà alla Corporazione. Hagen se l’era cavata, per sua fortuna, con una decurtazione di metà del già misero salario. Da allora si era ripromesso di rigare dritto, e di non dar più modo a simili imbarazzanti situazioni di danneggiarlo, per assurde ed ingiuste che fossero.
<< Lasciatemi lavorare >> stava pensando Hagen mentre sorvegliava l’ingresso alla struttura che ospitava il Reattore Mako n° 5, proprio un attimo rima che due braccia nude lo stringessero al collo in una morsa d’acciaio che lo colse di sorpresa. Poi, più nulla.

Veloce come un gatto, e altrettanto silenziosamente (e con una punta di verde beffardagine negli occhi, proprio come i gatti), il giovane uomo biondo trascinò indietro il corpo ormai inerme della prima delle tre guardie fino a tornare dietro il muro che prima gli aveva offerto riparo e lo affidò alle cure dei suoi tre compari. Poi uscì nuovamente dall’ombra e ripeté, con la stesa disarmante ed agghiacciante scioltezza, l’intera bieca operazione con l’altra sentinella. Il soldato Morris, molto diligentemente, non si era avveduto di nulla di quanto era accaduto al commilitone perché troppo impegnato in una interessante conversazione sulla rude vita di caserma con una bellissima brunetta dall’aria civettuola. Quando capì di essere stato giocato, il destino di Morris era già segnato. Mentre, per tre interminabili secondi, cercava senza troppa convinzione di divincolarsi da quell’abbraccio mortale, senza che potesse gridare o avvertire qualcuno dell’attacco in corso, visto che il suo assalitore gli serrava la bocca con una mano inguantata di borchiata pelle nera, si domandò perché Hagen non lo soccorresse. Capì immediatamente che certamente per il collega era già finita, ma non se dispiacque troppo: Hagen gli era sempre stato antipatico.
 

Bahamut Zero

Dreamcaster
non m'avete cagato de pezza quando ho postato la part 1! nemmeno un commentino piccolo piccolo! neanche mi avete detto "ahò, fa schifo"!

bene, allora beccateve la prt 2!
 

Bahamut Zero

Dreamcaster
Mako Reactor n° 5 (part 2)

<< Grazie, Tifa. >>, sussurrò ammiccando lo spietato killer mentre metteva giù, seduta contro la parete, la sua vittima dallo sguardo ormai di vetro.
<< Non ho fatto nulla, Cloud. >>, rispose non senza nascondere la sua disapprovazione la ragazza che aveva distratto Morris con i suoi convincenti argomenti.

Occuparsi della terza guardia, che sedeva in un camerino appena dietro la sbarra mobile a righe oblique bianche e rosse, fu più impegnativo. Jash era un giovane di colore, dal fisico imponente e massiccio. Sedeva, leggermente curvo sulla scrivania per via della sua non comune altezza, leggendo tutto assorto e trepidante per l’ennesimo colpo di testa di Dark Schnider l’ultimo numero di “Bastard!!”, il suo manga preferito, del tutto dimentico del fatto che era pagato per vigilare costantemente sull’ingresso alla zona del Reattore e sul monitor acceso davanti a lui collegato all’uopo alla rete a circuito chiuso. Evidentemente non era pagato abbastanza.

Cloud fece cenno a Tifa di non muoversi. Lei non rispose, se non con uno sguardo basso e perso nel vuoto. “Oh, Tifa..!”, pensò Cloud alzando gli occhi al cielo, intendendo con quel tacito rimprovero tutto il biasimo possibile per una ragazzina che non vuol crescere mai. Non avendo intenzione di sorbirsi in quel rischioso frangente una nuova lezione di etica da parte della Professoressa Tifa, lasciò perdere, e tornò a concentrarsi sulla sua missione.
Avanzò, rasente al muro, fino ad arrivare all’apertura sulla destra del cancello e della sbarra da cui era passato che dava sullo stanzino del sorvegliante. Era un azzardo passare tra le due telecamere che monitoravano gli accessi, ma poiché aveva notato che l’incaricato era immerso in una lettura evidentemente appassionante, e che controllava controvoglia lo schermo che aveva davanti solo quando voltava pagina, Cloud ritenne che poteva anche correre quel rischio.
Superata quella Porta delle Sfingi, l’oscuro avventuriero si cacciò di tasca un sassolino che aveva raccolto in precedenza nei dintorni del quartier generale e lo lanciò, con una traiettoria diagonale e molto bassa, in modo che la guardia non potesse vederlo attraverso il vetro dietro cui era seduto, in direzione del muro opposto.
Il flebile rumore che ciò provocò sembrò non sfuggire al soldato Jash, che alzò di scatto la testa dal suo fumetto e scrutò attentamente la penombra attraverso il vetro per alcuni secondi. Poi, confortato dal non vedere nessuno ripreso dalle telecamere esterne nel suo monitor, si rituffò nella lettura.

“Sfaticato”, rimuginò con disappunto Cloud. Tirò fuori un secondo sasso, levigato e leggermente più grande del precedente, e gettò anche questo contro il muro, ma stavolta ad una minore distanza. Ne risultò un suono stavolta più forte, che Jash non poté proprio ignorare. Pur essendo la sua prima esperienza di rumori sospetti durante il turno di notte, si sentiva preparato e pronto all’azione: estrasse la pistola dalla fondina che portava sotto l’ascella della divisa blu della Milizia per la Sicurezza di Midgar, prese la torcia elettrica dalla scrivania ed uscì con cautela dall’angusto cubicolo, che aveva abbellito con due foto della sua fidanzata Rosa e del figlio di lei, brandendo l’arma (ma non prima di aver segnato la pagina del suo albo piegando un lembo del foglio).

Una volta all’aria aperta, Jash tornò dopo ore a sentire sul volto, con inaspettato piacere, la luce delle stelle nel cielo nero di Midgar. Il muro di cinta del complesso di proprietà della ShinRa gli impediva di scorgere la luna, che già doveva avvicinarsi a baciare l’orizzonte, vista l’ora. Il giovane ricordava bene quando viveva ancora con sua madre, anni prima, nei Bassifondi: lì, al di sotto del GranDisco che tagliava crudelmente in due la città nel senso orizzontale, separando così i ghetti dall’Acropolis, i ricchi dai poveri, non c’era differenza tra notte e giorno, dal momento che né il cielo né la luce naturale potevano in alcun modo penetrare l’enorme scudo d’acciaio. Quando Jash era rimasto presto da solo non aveva avuto altra scelta che entrare a far parte dell’esercito; si era così potuto fare una vita tutta nuova con le sue sole forze, al Livello Superiore, dove, dopo un difficile inizio, aveva col tempo trovato una casa, un lavoro stabile, e soprattutto l’amore di Rosa, che lo ripagava delle passate sofferenze persino più della deliziosa novità che era per lui la luce del sole.

Ma lanciando lo sguardo verso l’alto, tra le miriadi di astri tanto irraggiungibili quanto indifferenti, era possibile immaginare di essere liberi dalla prigione che in quel momento era per Jash quel muro, che per molti era la città stessa, vivo, opprimente e malefico organismo metallico, e per altri la soffocante cappa di smog che di giorno, quando i Reattori Mako, i milioni di frenetiche automobili, pulsante sangue di Midgar, e ogni sorta di altro fattore inquinante erano a pieno regime, stritolava nella sua invisibile morsa i polmoni e i cuori di chiunque continuasse la fatale lotta per il respiro.

Con la pistola d’ordinanza calibro 38 puntata precauzionalmente davanti a sé, Jash guardò alla sua destra, in direzione della grande entrata dell’edificio principale del complesso, il luogo che lui, in quanto figura professionale, era nottetempo incaricato di sorvegliare. Tutto sembrava al proprio posto: altri lumi, attorno a cui ronzavano flemmatici mille moscerini attratti dalla forte luce giallognola, emergevano in alto come nere braccia dal muro ai due lati della porta, e illuminavano quasi a giorno quella parte del settore esterno, rendendo così impossibile a chiunque avvicinarsi all’unico ingresso per la torre senza essere scorto.
Altrettanto non si poteva dire dell’area, in cui regnavano incontrastati precipizi di oscurità più o meno profonda, tra il bugigattolo occupato da Jash e il cancello che si apriva sulla strada, a cui altri due soldati montavano la guardia. Non si trattava che di pochi metri, eppure il piccolo sprazzo del bluastro colore dell’asfalto sembrava una lontana isola felice, ad un misterioso e tetro mare di distanza.

<< Hagen! >>, chiamò Jash. << Hagen, Morris, avete sentito anche voi rumori insoliti o sono paranoico? >>.
Il tono e la modulazione della voce erano assolutamente normali e tranquilli, con un velo di autoimposta scherzosità; ma una goccia di sudore già imperlava la fronte del soldato Jash, che lottava invece nel profondo di se stesso per mantenere la baldanza e i nervi saldi.
I secondi passavano, ma nessuno dei colleghi del turno di notte rispondeva ancora. Gli sembrò persino di sentire i grevi, lenti ma costanti rintocchi della vecchia pendola che Nora teneva in casa: quante notti, quando ancora non gli era stato assegnato quel lavoro che lo costringeva a riposare di giorno, si era svegliato, con gli occhi sbarrati fissi nella penombra, a causa di quell’assordante marchingegno che da fuori della stanza da letto gli penetrava il cervello sempre più in profondità ad ogni battito, mentre la fragile creatura dai lunghi capelli biondi al suo fianco dormiva serenamente girata sull’altro fianco, ignara di quell’orrore notturno.
Dopo aver deglutito, un’infinità di tempo più tardi, Jash ripeté: << Hagen…? >>.
Mosse poi uno o due passi in avanti, fino a trovarsi nel centro della zona buia. Sebbene i suoi occhi si stessero quasi abituando a quell’oscurità che non era in fondo così impenetrabile, accese la piccola ma potente torcia elettrica che aveva con sé e la puntò rapidamente a sinistra e a destra senza vedere altro che i lati interni del muro di cinta; poi la rivolse dritto davanti a sé.

Fu in quel momento che Cloud sbucò dall’ombra alle sue spalle, e con un calcio ben piazzato riuscì a fargli cadere di mano la pistola, che finì in terra come anche la provvidenziale fonte di luce che lo aveva guidato nei movimenti; preso alla sprovvista, Jash si girò verso di lui di scatto, disarmato ma lucido e non troppo disorientato. Incassò senza problemi due veloci pugni all’addome prima ancora di vedere il suo biondo aggressore, parzialmente investito dal raggio luminoso della torcia che proveniva dal basso. Fece per sferrare uno dei suoi colpi più energici, forte della sua superiorità in stazza e muscolatura, ma Cloud fu più rapido e, dopo essersi abbassato fino a toccare terra col ginocchio destro per schivare il pugno demolitore, spiccò un salto con calcio che colpi in pieno volto il suo avversario, il quale sembrò non gradire i pesanti scarponi chiodati che gli stampavano in faccia il disegno in rilievo di un carinissimo moguri che in altre occasioni avrebbe trovato divertente.

Cloud si accertò che la guardia avesse perso i sensi e che non si sarebbe svegliata per un po’, poi fece segno a Tifa che si poteva avanzare in tutta tranquillità. La giovane, felice che almeno all’ultimo dei tre soldati Cloud avesse risparmiato la vita, chiamò a sua volta gli altri tre che erano rimasti appostati dietro l’angolo. Barret, Biggs e Wedge raggiunsero in fretta Tifa e il mercenario che stava ampiamente dimostrando di saper meritare il suo compenso.
 

Sephir90

ιηѕιdє тнє dаяκ
devo dire ke nn l'ho letto tutto, ma la maggiorparte. e devo dire mi è piaciuto molto. nn l'ho letto tutto per motivi di tempo ma lo finiro. te lo giuro. ;)
cmq bel racconto. avvincente.
 
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